Violenza nazista sui clandestini, parola di spastico

Il mio solito vecchio amico, spastico dalla nascita,1 mi faceva notare un aspetto particolare riguardo alla recente legge che definisce reato l’essere clandestino. È un aspetto che nessuno – mi pare – ha finora colto.

Trascrivo qui in corsivo quanto lui mi ha detto.

Non essere capito è un po’ la storia della mia vita. Il primo ricordo che posseggo di me è il ritrovamento del mio succhiotto. Ebbene ritrovai il succhiotto messo da me stesso in uno spazio sotto il tavolo da cucina, in un luogo dove solo io piccolo bambino potevo accedere. L’avevo dimenticato lì e lì l’ho ritrovai. Felice lo mostrai a mia madre, che da giorni lo stava disperatamente cercando insieme a mio padre. Dopo anni mio padre disse che solo allora aveva capito che non ero “scemo”.

A scuola, il primo giorno, la Direttrice Didattica e tutti i maestri (eccetto uno) non mi volevano prendere in classe, perché anche loro pensavano che fossi … no, loro non dissero quella parola, ma la pensarono e cercarono di metterla in pratica (temo che con le leggi attuali sull’ “inserimento” ci sarebbero riusciti). Dopo tre mesi con quel grande caro maestro vinsi un concorso di poesia per bambini, cosa che spinse la prima maestra a dire a mia madre che ora poteva prendermi. Fu il primo concorso a … titolo (non tanto quello acquisito, quanto quello perduto) di tutti quelli che mi è toccato vincere. Naturalmente mia madre rimandò al mittente la proposta della maestra.

Gli episodi potrebbero continuare. Una cosa è certa: per chi nasce in certo qual modo clandestino della normalità, gli esami sono continui, quotidiani, implacabili. Se uno non li trasforma un po’ in gioco e non diventa l’abile artista di quel gioco, non può non soccombere, dando così conferma all’ipotesi iniziale degli esaminatori, anzi divenendone complice. Sono esami alla rovescia: l’esaminando deve mostrare non tanto di essere, quanto di non essere; non tanto di capire lui, quanto di fare capire agli altri che hanno capito male; non tanto di essere bravo, quanto di non essere non bravo. Per chi non riesce o non può e non sa trasformarli in gioco, questi esami diventano una tortura dell’anima e della identità, scavano un abisso tra te e te stesso, poco alla volta ti uccidono. Non a caso, in molte società, il destino degli spastici è la psicosi.

Sei interrogato e giudicato non in base alle tue competenze, ma solo per la tua identità e nella tua identità, per la tua carne e nella tua carne. Sei interrogato e giudicato in nome di un pregiudizio (peraltro non riconosciuto come tale), secondo il quale tu sei non qualcuno, ma “qualcosa” e, perciò stesso, qualcosa di negativo. Già nell’interrogarti, ti giudicano; già nel giudicarti, ti colpevolizzano e ti escludono. Così facendo tu finisci con il vivere la tua carne come una colpa, una diversità negativa, un reato, il terribile reato di lesa normalità. E neppure se ne accorgono, poveretti! Neppure si rendono conto che ti stanno uccidendo. Eppure basterebbe poco: basterebbe che prima di interrogare, parlassero; prima di giudicare, ascoltassero.

È solo questione di atteggiamento e di sguardo: se l’atteggiamento e lo sguardo iniziali sono di difesa, sono la difesa, allora ogni vera parola e ogni vero ascolto saltano già in partenza. Se la normalità è difesa, allora ogni diversità è un handicap, una colpa, un reato prima che contro la legge contro il quieto vivere. Se la normalità è in difesa, allora prima o poi ci sono l’esclusione del diverso, la sua segregazione, l’espulsione; allora si apre quella via che, se aperta, sa e può giungere fino all’estremo della “soluzione finale” dello sterminio nazista o a quella della “soluzione iniziale” dell’aborto “terapeutico” (ma guai se tu, diverso e spastico, osi dire che l’aborto uccide prima ancora di lasciare nascere; guai se osi dire queste cose; guai se osi chiedere che concetto di ”terapia” ci sia davvero in gioco in un “aborto terapeutico”; guai se osi chiedere che “terapia” sia, di chi sia la “terapia” e da che cosa). So quanto sia difficile vederlo e pensarlo, eppure è soltanto questione di sguardo e di atteggiamento, di come lo sguardo è dato e di come l’atteggiamento in-tende l’altro: se lo sguardo e l’atteggiamento sono di difesa, prima o poi si apre la strada dell’inferno. Non vedono, non sanno, non pensano che uno sguardo o un atteggiamento possono uccidere più e prima di una legge. Non sanno che le leggi e le polizie vengono dopo, soltanto dopo, come conseguenza degli sguardi e degli atteggiamenti, come loro legittimazione, come loro trasformazione in dovere civile.

Ecco, io credo che per i clandestini succeda la stessa cosa. Succede loro già adesso davanti ai nostri sguardi e ai nostri atteggiamenti più o meno consciamente o volutamente in difesa, più o meno consciamente o volutamente razzisti. Succederà ancora di più con questa legge, che caricherà i nostri sguardi e i nostri atteggiamenti dell’ulteriore patina di indifferente e scontato formalismo legale o di prevaricante e doveroso fervore poliziesco. A chi li interrogherà dovranno dire non che sono uomini e donne, ma che non sono clandestini. Succederà anche per chi non è clandestino. È questo che non viene colto: anche se uno solo è guardato e giudicato per ciò che non è, tutti sono guardati e giudicato come colpevoli e ogni umanità diventa un reato.

Succederà ai clandestini quanto io ho dovuto subire per tutta la vita: la tortura dell’identità e dell’anima, la lenta induzione al suicidio di sé, della propria umanità, della propria dignità. Non tutti hanno e avranno la forza o la possibilità o la fortuna di potere, dovere, volere rispondere adeguatamente, legalmente, correttamente, dignitosamente, creativamente. Troppi alla fine soccomberanno, dovranno soccombere. È un po quello che durante il nazismo succedeva agli ebrei, agli omosessuali, ai rom, agli handicappati, ai dissidenti. Di fronte a chi li interrogava non potevano, non dovevano, non volevano essere ciò che erano. Sono ferite che restano nei decenni, anche quando questi comportamenti e questa legge – se l’uomo vorrà (Dio non c’entra con responsabilità che sono solo umane) – non ci saranno più. Le ferite dell’anima e della identità, quelle che possono indurre al suicidio, non svaniscono nel nulla. Abitano il profondo. Restano per sempre scavate nell’anima di tutti noi. Il nazismo ha continuato a uccidere ben oltre la propria fine, quando uomini grandissimi e dolcissimi (quanto li ho amati e quanto li amo) quali Primo Levi e Bruno Bettelheim sono uccisi il primo a 65 anni, il secondo a 87 dalla più micidiale arma nazista: quella negazione dell’identità e dell’anima che è induzione lenta al suicidio”.

 

 

 

1Ne ho parlato in Rapporto terapeuta-paziente .